“In Europa, in un caso su tre a scoprire di essere positiva all’HIV è una donna. La diagnosi tra il genere femminile è generalmente tardiva e questo impedisce un accesso tempestivo alle cure che migliorerebbe la qualità di vita”. Ad accendere i riflettori sulle disparità di genere, sia per la diagnosi che per il trattamento dell’HIV, in occasione della Giornata mondiale contro l’Aids, che dal 1988 è celebrata in tutto il mondo il 1° dicembre di ogni anno, è la Presidente della Fnopo, la Federazione Nazionale degli Ordini della Professione Ostetrica, Silvia Vaccari. Tuttavia, diagnosi e cura non sono gli unici due fattori che mettono in evidenza la diversità di genere. Le donne sono particolarmente esposte all’infezione da Hiv a causa di una serie di fattori biologici, sociali e culturali. “Innanzitutto – continua Vaccari – sono più esposte all’infezione per la conformazione degli organi genitali femminili. Di solito, la contraggono all’interno di una relazione stabile o del matrimonio e sono più restie a chiedere di utilizzare il preservativo, perché temono il giudizio negativo del partner”. Ma se una donna si trova in età fertile il rischio di infezione potrebbe essere duplice. Una donna in dolce attesa può trasmettere l’Hiv al feto. “Se una donna incinta contrae l’Hiv durante le prime settimane di gestazione – aggiunge Vaccari – il rischio di aborto può triplicare. Se, invece, la gravidanza è in fase avanzata il rischio è di parto pretermine”. Anche se entrambi i rischi dovessero essere scongiurati ve ne sono altri, altrettanto gravi: “Ritardi di crescita, microcefalia, ipertelorismo (bozze frontali prominenti, naso insellato, rime palpebrali oblique o allungate con sclere blu e naso corto con radici larghe)”, spiega ancora la Presidente Vaccari. Ma come si trasmette l’Hiv da madre in figlio? “Sia durante la gravidanza per via trans-placentare, che al parto (sia esso per le vie naturali o per via laparotomia attraverso il taglio cesareo)”, spiega la Presidente. “Chiaramente la consapevolezza della diagnosi può cambiare le carte in tavola. Innanzitutto, bisogna controllare la carica virale della madre: più è alta maggiore sarà il rischio di incorrere in una trasmissione verticale”, dice l’Ostetrica. Secondo il Sistema nazionale per le linee guida (Snlg) e il Royal College of Obstetricians and Gynaecologists, alle donne che non hanno svolto alcuna terapia antiretrovirale in gravidanza o che l’abbiano svolta ma che presentino un valore di carica virale plasmatica superiore a 50 copie/ml è consigliabile espletare un parto tramite taglio cesareo programmato intorno alla 38esima settimana, al fine di prevenire la rottura delle membrane. Mentre è possibile un parto per la via vaginale qualora la terapia antiretrovirale sia stata effettuata e la carica virale plasmatica è presente come < 50 copie/ml. La terapia antiretrovirale ha rivoluzionato anche l’allattamento al seno per le donne affette da Hiv. Nel 2010 Oms e Unicef hanno emesso nuove raccomandazioni in materia. “Per le donne in trattamento il rischio di trasmissione post partum del virus può essere ridotto a zero”, assicura Vaccari. Tuttavia, non tutte le donne affette da Hiv sono a conoscenza delle nuove possibilità terapeutiche. Per questo è fondamentale informarle, fin dalle prime settimane di gravidanza e l’Ostetrica/i è senza dubbio il professionista formato anche a tale scopo. Inoltre, le stesse Ostetriche/i svolgono un ruolo cruciale pure per l’intercettazione dei casi sommersi, incentivando le donne a sottoporsi al test dell’Hiv, anche laddove non ci sia alcun sospetto. Meglio un risultato negativo in più che l’ennesima diagnosi positiva e tardiva”, conclude la Presidente della Federazione nazionale Ordini della professione Ostetrica.

Commenti Facebook:

Commenti