L’impianto generale è salvo ma la legge sulla autonomia differenziata deve essere modificata dal Parlamento in alcune parti. La Corte costituzionale ha ritenuto “non fondata” la questione di costituzionalità dell’intera legge, la numero 86 del 2024, rilevando altresì nel testo sette profili di illegittimità a cui si dovrà porre rimedio, mettendo in discussione la possibilità che si possa dar corso al referendum abrogativo, per cui mesi fa partì la raccolta di firme. In attesa della sentenza, ora ci si interroga sul valore dei rilievi avanzati dalla suprema Corte: in primo luogo, è il principio di sussidiarietà, previsto dall’articolo 118 della Costituzione, a essere invocato per sanare quelle parti del testo che, “nella esigenza di un riparto di poteri”, non evidenzierebbero a sufficienza, nella “distribuzione delle funzioni legislativa e amministrativa tra Stato e Regioni”, una devoluzione “in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione”. Sottili tecnicismi che pongono in primo piano come i supremi magistrati si orientino in ossequio ai valori basilari su cui poggia la nostra Carta. Parimenti, i giudici della Consulta si sono mossi per quanto attiene alla materia tributaria: è incostituzionale “modificare con decreto interministeriale le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali”, una soluzione che premierebbe le regioni inefficienti che non adempirebbero alla funzione richiesta, nonostante le risorse ricevute dallo Stato. I rilievi più aderenti al dibattito politico attuale riguardano infine la materia relativa ai cosiddetti Lep, i livelli essenziali di prestazioni – standard a cui tutte le regioni debbono attenersi per garantire equità – la cui determinazione non può essere riservata al governo ma deve vedere necessariamente l’intervento dei parlamentari. Un principio di democrazia che serpeggia in tutti i rilievi della Corte, tesi a limitare l’azione dell’esecutivo, che agirebbe attraverso lo strumento dei decreti del presidente del Consiglio (Dpcm), attenuando il potere legislativo espressione della collettività. La delega concernente i diritti civili e sociali, che non preveda “idonei criteri direttivi” è ritenuta altresì incostituzionale in quanto limiterebbe il ruolo fondamentale di deputati e senatori. Tornando alla finanza pubblica, la Consulta punta l’indice contro “la facoltatività, piuttosto che la doverosità”, per le regioni destinatarie della devoluzione, “del concorso agli obiettivi di finanza pubblica, con conseguente indebolimento dei vincoli di solidarietà e unità della Repubblica”. Questi, in sintesi, i rilievi a cui è stato sottoposto il testo nel corso dell’esame dovuto ai ricorsi delle regioni Puglia, Toscana, Sardegna e Campania e a cui si è contrapposta la difesa del presidente del Consiglio dei ministri e gli atti di intervento “ad opponendum” delle Regioni Lombardia, Piemonte e Veneto. Immancabili le reazioni delle parti politiche. Se per il presidente della Campania Vincenzo De Luca “la Consulta ha smantellato l’impianto della legge”, di parere del tutto opposto è Luca Zaia, governatore veneto. “L’autonomia è stata confermata dalla Corte costituzionale”, sostiene con convinzione e a ragion veduta. E il dibattito tra le forze politiche e sociali è destinato a infiammarsi. (Nella foto: il presidente del Veneto Luca Zaia)

Commenti Facebook:

Commenti