Autonomia regionale, o presunta tale. Una legge approvata di recente che è arrivata prepotentemente al centro del dibattito e, pensiamo, resterà a lungo motivo di acceso confronto. Sul tema, rispetto agli innumerevoli pareri, per lo più di illuminati inesperti, non c’è molta chiarezza ma una certezza l’abbiamo: pochi hanno letto il testo. Il disegno di legge, numero 1665 “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”, non è altro che la più completa applicazione di quanto previsto dalla nostra Carta, il cui processo di devoluzione è iniziato nel 2001 con la riforma del Titolo V. Ė illuminante, in tal senso, citare l’articolo 1 del provvedimento: “La presente legge, nel rispetto dell’unità nazionale e al fine di rimuovere discriminazioni e disparità di accesso ai servizi essenziali sul territorio, nel rispetto altresì dei princìpi di unità giuridica ed economica, di coesione economica, sociale e territoriale (…)”. Rispetto dell’unità nazionale, stop alle disparità di accesso ai servizi, rispetto dei principi di unità giuridica ed economica e via elencando. Si tratta di sedici articoli densi di pesi e contrappesi, di controlli di vari organi per garantirne la corretta applicazione, della determinazione dei cosiddetti Lep “Livelli essenziali di prestazioni” senza i quali non è possibile attuare la cosiddetta “autonomia differenziata”. Paradossalmente, rispetto all’argomento principale usato nella polemica politica, secondo cui la legge creerebbe disparità, leggendo il testo, al contrario, se ne deduce che proprio tali norme tenderebbero a superare gli squilibri esistenti. La sanità, naturalmente, è uno dei temi al centro della disputa e alcuni protagonisti non hanno esitato a esprimere il proprio parere. “Non possiamo non esprimere legittima preoccupazione per i contraccolpi che il nostro Servizio sanitario nazionale potrebbe subire – ha dichiarato Antonio De Palma, segretario nazionale di Nursing up, sindacato degli infermieri – i rischi sono evidenti. Con l’autonomia differenziata le Regioni più forti potranno trattenere il gettito fiscale, che non verrebbe più redistribuito su base nazionale, impoverendo ulteriormente il Mezzogiorno”. Il timore del sindacalista è il paventato rafforzamento delle Regioni virtuose, con indebolimento di quelle del Sud. “Il percorso è rafforzare il potere centrale dell’esecutivo,  in termini di politica sanitaria efficiente,  – continua De Palma – intervenire per colmare, il gap delle disuguaglianze nei territori che presentino gravi sperequazioni in termini di tutela della Salute nei confronti dei loro cittadini”. Rassicura invece il parere di Giovanni Migliore, presidente della Fiaso – Federazione delle aziende sanitarie e ospedaliere – che intervenuto a un convegno sul tema ha dichiarato: “In sanità sperimentiamo l’autonomia regionale da quasi 25 anni e la modifica del Titolo V del 2001 ha creato di fatto 21 sistemi sanitari. La riforma può e deve essere un’opportunità per garantire maggiore equità e stabilità al sistema sulla base dell’esperienza che abbiamo maturato”. Non è un caso che, proprio in sanità siano già previsti i Lea, livelli essenziali di assistenza, su cui si misura l’efficienza delle risposte in termini di salute, che al momento sono fortemente differenziate tra un territorio e l’altro. Secondo Migliore, l’applicazione della autonomia consentirà di utilizzare strumenti nuovi dove sono presenti difficoltà consolidate. Questo, negli auspici del legislatore, può essere garantito soltanto responsabilizzando gli amministratori locali, che dovranno dimostrare di essere in grado di governare in modo oculato il proprio territorio.

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