Covid, si potevano salvare molte vite
Difficile risalire a singole responsabilità nel caso di sciagure collettive e impreviste
Non 50, 70 o 100. Le vite salvate durante i primi mesi della pandemia da Covid potevano essere ben 6807: 4148 morti in meno al 27 febbraio 2020 e 2659 esistenze sottratte al decesso al 3 marzo dello stesso anno. Lo stabilisce un modello matematico, e pertanto attendibile, adottato per la consulenza che Andrea Crisanti – già microbiologo dell’Università di Padova, eletto senatore nelle file del Pd – ha fornito nella inchiesta con l’imputazione di epidemia colposa, condotta dal procuratore aggiunto di Bergamo Cristina Rota insieme ai pm Silvia Marchina e Paolo Mandurino, coordinata dal dottor Antonio Chiappani. Procedimento concluso con 19 indagati dai nomi eccellenti, tra cui l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’ex ministro della Salute Roberto Speranza (nella foto), il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana con l’assessore al Welfare Giulio Gallera. Insieme a loro, alcuni personaggi di spicco dell’Istituto superiore di Sanità come il presidente Silvio Brusaferro, e Franco Locatelli, che presiedeva il Consiglio superiore di Sanità, più il coordinatore del comitato istituito ad hoc per la pandemia Agostino Miozzo e l’ex dirigente della protezione civile Angelo Borrelli. Non sono state risparmiate dall’inchiesta le paludate stanze del ministero della Salute: oltre all’impacciato Speranza, sotto i riflettori dei magistrati anche Francesco Maraglino, all’epoca direttore della Prevenzione delle malattie trasmissibili e profilassi internazionale. Secondo la Procura, se fosse stata attivata per tempo la zona rossa con chiusura totale nei territori della provincia di Bergamo, le immagini strazianti dei camion militari carichi di salme non sarebbero rimaste impresse, a perenne memoria, nell’immaginario collettivo. Una inchiesta complessa, con una copiosa documentazione da esaminare, che si muove su tre filoni: quello territoriale, il regionale e infine il livello nazionale, che ha visto rispondere alle contestazioni di reato, oltre a Conte e Speranza, l’allora ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Agli indagati sono imputati a vario titolo i reati di epidemia colposa aggravata, omicidio colposo plurimo, rifiuto di atti di ufficio e falso. Imputazioni di non poco conto, derivanti, oltre che dall’esame di copiosa documentazione cartacea e digitale, dalla audizione di centinaia di persone informate sui fatti. Insieme ai nomi di calibro, ci sono altri indagati appartenenti ai ruoli dell’azienda sanitaria di Bergamo e dirigenti dell’assessorato al Welfare della Lombardia. L’attività dei pm parte dalla data del 5 gennaio 2020, nel momento in cui l’Oms, organizzazione mondiale della Sanità lanciò l’allarme pandemico diretto a tutti i Paesi. In Italia si procedeva a tentoni, tra lo sbigottimento generale per un virus di cui non si sapeva nulla, slogan rassicuranti, esempio “abbraccia un cinese” e anamnesi che prevedevano test specifici esclusivamente per chi tornava dalla Cina. Soltanto il coraggio e la competenza di una dottoressa, che ha derogato al rigido protocollo ministeriale, hanno consentito di individuare il 20 febbraio il paziente uno Mattia Maestri all’ospedale di Codogno. Proprio in tale occasione, da una prima imputazione nei confronti di Mattia, poi prosciolto, i magistrati di Lodi compresero quanto fosse ormai diffuso da tempo il virus da Sars-cov2 nel territorio lombardo. A causa, presumibilmente, di una zona rossa attivata troppo tardi, di un piano pandemico fermo al 2006 e di una concatenazione di errori di cui sovente, in occasione di sciagure collettive, è impossibile attribuire la responsabilità al singolo.