Liste d’attesa: male incurabile o diagnosi sbagliata?

sirene ottobredi Giorgio Scaffidi

Pulsatis et aperieturvobis, dice il Vangelo. Bussate e vi sarà aperto. Lo spirito ecumenico della Città Eterna risuona, come un’eco lontana, dal prosaico retro di bus e su pannelli luminosi nelle stazioni metro. Il Campus Biomedico, con tanto di logo della Regione Lazio, offre 7 giorni su 7, dal mattino a notte fonda, Tac e risonanze magnetiche ai cittadini, sotto l’egida del Servizio sanitario regionale. Scopo: abbattere le liste d’attesa. Lo si proclama nei cartelloni pubblicitari vicini a quelli delle prestazioni dentali, che promettono sorrisi smaglianti sia per i denti candidi che per i costi contenuti. Verrebbe da congratularsi con Zingaretti per aver preso di petto l’annoso problema delle liste d’attesa.

Il recente Rapporto Pit Salute di Cittadinanzattiva-Tribunale del malato, testimonia che su oltre 24000 segnalazioni dei cittadini, quasi la metà riguarda la difficoltà d’accesso alle prestazioni sanitarie provocata, nel 58.3% dei casi, proprio dalle liste d’attesa.

Se i disagi dei cittadini sono reali, è il caso di chiedersi quali ne siano le cause. Le regole generali dell’economia dicono che le liste d’attesa si formano quando l’offerta di beni o servizi è inferiore alla domanda; dicono pure che è la domanda a indurre l’offerta. Nell’economia sanitaria l’incremento di offerta stimola e stuzzica la domanda che finisce col prevalere sull’offerta, domanda che può anche essere viziata o mal posta, in crescendo e incontrollata, non regolata da buone pratiche mediche. In tale circolo vizioso, alla crescita progressiva di richieste, superiore alla capacità di risposta del sistema, corrisponde la formazione di liste d’attesa che affliggono i cittadini e sollecitano gli organi politico-amministrativi a non scontentare i cittadini-elettori, aprendo così nuovi luoghi d’accesso alle prestazioni. Dov’è l’inghippo e dove la corretta risposta, benché non risolutiva? Soprattutto quando si tratta di prestazioni di alta specialità ed elevato costo (TAC, RM) o strumentali di II livello (ecografie varie, test da sforzo) l’assalto alla diligenza è forte. Se non si regola l’accesso, il caos è inevitabile e incontenibile.

Nel Lazio si fanno più TAC e RM che in altre regioni, benché l’epidemiologia non segnali uno stato di salute peggiore dei residenti. La giunta Zingaretti fu preceduta dalla giunta Polverini che offrì ai cittadini TAC e RM in vari ospedali pubblici anche il sabato e la domenica per abbattere le liste d’attesa. Allora, come ora, non fu affatto regolata la domanda. Se non si prevedono percorsi diagnostici basati su EvidenceBased Medicine, Linee guida, protocolli che aprano o chiudano la caselle d’accesso, l’affollamento generalizzato alla più avanzata, moderna, costosa prestazione sarà inevitabile, anche se non sempre si tratterà di quella più indicata, necessaria o utile.

La giunta Zingaretti ha ripetuto la fallimentare esperienza della giunta Polverini con l’aggravante di aver affidato il lauto pasto al Campus Biomedico, di proprietà dell’Opus Dei.

Chi è responsabile dell’ennesimo errore? Perché non seguire le sagge indicazioni che Società Scientifiche e letteratura internazionale da anni prospettano ai decisori istituzionali? Perché rincorrere la domanda di prestazioni piuttosto che regolarla in scienza e coscienza? Perché dobbiamo porre le stesse domande, indipendentemente dal colore delle giunte regionali, ricevendo la stessa inconcludente risposta? Perché ci si dimentica che se errare humanum est, perseverare diabolicumest.

E infine: ha il Campus le capacità strumentali per far fronte al compito? Può il Campus, costola dell’Opus Dei, gestire un compito diabolicum?

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