Patto per la salute: non c’è tempo, né soldi

Di sicuro, la data del 30 aprile è saltata. Il Patto per la salute, documento di programmazione sanitaria predisposto dal ministero, che dovrà mettere d’accordo gli assessori alla Sanità di tutta Italia sulle risorse da ripartire, le prestazioni da offrire, i ticket da imporre e via dicendo, con le provvidenze attualmente a disposizione non è sostenibile. Il colpo di grazia è arrivato dalle manovre messe in atto dal precedente esecutivo, consistenti in otto miliardi di tagli, cifra che farebbe sobbalzare qualsiasi accorto amministratore ma che, per i nostri economisti e tecnici al governo, è la giusta misura per rimettere i conti a posto e il Paese in sesto. Gli assessori chiedono più tempo, quasi come se, con lo scorrere di giorni e mesi gli amministratori potessero dotarsi di una bacchetta magica o assistere al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. La speranza è quella di attendere ottobre per poter riallineare la manovra realizzata dall’ex ministro Tremonti con il Patto in questione, valutando l’andamento tendenziale della situazione economica nazionale a quella data. L’imposizione, ad esempio, dei nuovi ticket “lineari” di 10 euro su ogni prestazione ad un Paese stremato dai sacrifici, profondamente contrariato dall’attuale classe politica, sarebbe stato il colpo di grazia per il governo Monti e quindi si è scelta la strada della prudenza. La polemica però non si è fatta attendere. In un lungo intervento su quotidianosanita.it, Ivan Cavicchi, docente di Sociologia dell’organizzazione sanitaria a Tor Vergata, ha criticato Vasco Errani – presidente della Conferenza delle Regioni – reo, a suo avviso, di “chiedere soldi senza produrre cambiamento, di quello buono”. Le argomentazioni sostenute da Cavicchi attengono alla necessità di ”proporre  misure strutturali in grado di intervenire  stabilmente  sul sistema, che siano socialmente compatibili  per evitare di gravare  interamente sui contribuenti  e in particolare sulle fasce  a più basso reddito”, come invocato in una relazione della Corte dei conti di otto anni fa. “Da allora a oggi la situazione è visibilmente peggiorata – incalza il professore – anch’io voglio i soldi che servono alla sanità, altroché. Ma oggi  per avere i soldi devo ricontestualizzare sanità e medicina, in questa società, con questa economia, in questa crisi. Per farlo efficacemente devo recuperare la grave regressività in cui è scaduta la sanità pubblica grazie a ritardi, politiche deboli, interventi superficiali”. Timore di Cavicchi è l’inesorabile cammino verso la privatizzazione. Se la riforma del Titolo V della Costituzione ha devoluto tutti i poteri in materia alle Regioni queste, secondo il professore, debbono certo detenerlo ma essere in grado di “cambiare, reinventare, ripensare…a partire da queste burocrazie miserevoli che sono le aziende. Si è migliorato senza cambiare, riorganizzato senza aggiornare, si è accorpato, scorporato, unito, diviso facendo sparire  piano piano qualsiasi nozione seria di territorialità”. Cavicchi conclude facendo riferimento al finanziamento inadeguato, che insegue un Pil soggetto a continue oscillazioni, senza ricorrere a una vera programmazione anzi, scaricando sui cittadini, con addizionali Irpef, ticket di ogni tipo, tasse diverse,  le difficoltà di bilancio regionali.

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