Un confronto impari. Seguire l’incontro di pugilato del 3 agosto tra l’ungherese Anna Luca Hamori e Imane Khalif, rappresentante di un orgoglioso mondo arabo, ha provocato negli spettatori una sottile sofferenza. Una tecnica impeccabile, quella della magiara, tal quale a quella di Khalif ma la potenza no. Sulla potenza non c’è tecnica che tenga: il testosterone vince facile. Anzi, si è avuta l’impressione che l’affondo di Khalif fosse un po’ più delicato, senza infierire, al contrario di quanto avvenuto sulla nostra Angela Carini, nel match del 1° agosto. Tra i numerosi commenti, seguiti alla polemica sull’incerto sesso di Imane e l’opportunità di far svolgere l’incontro di boxe nella categoria femminile, riteniamo opportuno riportare il parere che il professor Renzo Puccetti – laurea in Medicina e chirurgia, master in  Bioetica, curriculum stellare – ha rilasciato in varie interviste, che riteniamo serva a dipanare ogni dubbio. “Leggo l’intervista del Corriere della Sera in cui la professoressa Silvia Camporesi sostiene che l’atleta pugile Imane Khelif è una donna perché semplicemente affetta da un iperandogenismo assimilato alla sindrome dell’ovaio policistico”, esordisce il fondatore dell’Associazione Scienza & Vita, specificando che il suo è il parere di un bioeticista medico che risponde a un “bioeticista non medico”. Dalle note biografiche apprendiamo infatti che la blasonata professoressa ha una laurea specialistica in Biotecnologie mediche, cosa diversa da Medicina e chirurgia. Il professore  continua:È riferito che l’atleta algerina è portatrice di un assetto cromosomico maschile XY. Ciò ha fatto decidere alla federazione pugilistica mondiale l’estromissione dalle competizioni femminili. Non così ha deciso il comitato olimpico che avrebbe giudicato in base ai livelli ormonali nel sangue”. Fin qui tutto chiaro, come attestano le roventi polemiche che da qualche giorno accompagnano questo caso. ”Nella sindrome dell’ovaio policistico si ha però un assetto genetico femminile XX – è sempre Puccetti a spiegare – e non tutte le donne affette da policistosi ovarica presentano l’iperandogenismo. Dunque l’assimilazione è impropria. Quando abbiamo un assetto genetico maschile, al raggiungimento della pubertà, in assenza di patologie che lo impediscono, l’ambiente ormonale androgenico determina modificazioni corporee così marcate e stabili, che un successivo abbassamento dei livelli androgenici non riesce a farle regredire. Questo è proprio uno dei presupposti teorici del blocco puberale per i prepuberi con disforia di genere”, va avanti il professore. “I livelli di androgeni nel range femminile non rendono un maschio una donna, ma piuttosto consentono di descriverlo come un maschio con ipoandrogenismo affetto da sintomi e segni che ne sono la conseguenza. Di converso, l’iperandogenismo che affligge le femmine affette da sindrome dell’ovaio policistico, può causare sintomi di virilizzazione più o meno accentuati, ma non fa di queste donne dei maschi”. Quindi la situazione è molto chiara, al di là di tutte le più fantasiose attribuzioni. “Nel campo dello sport, la riduzione androgenica dopo lo sviluppo puberale, non atrofizza la massa ossea e muscolare a livelli femminili – continua Puccetti – salvo dunque miglior giudizio reso tale da informazioni che non sono al momento disponibili, l’atleta italiana è stata costretta a combattere contro un soggetto con una struttura neurologica, ossea e muscolare di ordine maschile”. Quella che, come riporta l’Istituto superiore di Sanità, si definisce persona intersex o, per dirla con termine scientifico, persona affetta da “variazioni delle caratteristiche del sesso” o in inglese “Variations of Sex Characteristics” (VSC). Quindi, per concludere con la competente esposizione del professor Puccetti: “Presentarla come femmina è incoerente con il normale approccio medico-scientifico con cui capiamo quella costellazione di alterazioni patologiche comprese nel termine “Variazioni delle caratteristiche del sesso”. (Nella foto: Angela Carini e Imane Khalif)

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