Tu, lei, voi. In ospedale ero soltanto… io
Quarant’anni da medico ospedaliero, un mese di pensione e poi un’altra dimensione, da poco iniziata, da paziente oncologico. Un bel salto, un cambio di prospettiva inatteso, ma anche un’inattesa occasione di riflessione. Sono stato ricoverato in un reparto di chirurgia toracica, di alto livello tecnologico e professionale, in un Policlinico universitario più noto per le carenze che per le efficienze. Comune cittadino trasferito suo malgrado nel girone dei pazienti, senza l’etichetta di dottore davanti al nome, ho vissuto nell’anonimato le esperienze di tutti i comuni mortali. Infermieri/e ed ausiliari/e si rivolgevano a noi ricoverati usando il “lei”, il “tu”, chiamandoci per cognome, per nome o anche per nome-vezzeggiativo, nel mio caso Giorgino, anziché Giorgio ed il tutto a dispetto dei miei 66 anni. Ma come! Per decenni abbiamo combattuto per garantire a tutti i pazienti l’uso del “lei”, sinonimo di rispetto e qualità. Tutte le età e tutti i ceti sociali, già resi uguali dalla malattia, avrebbero avuto la certezza del riguardo alla persona e dell’eguaglianza nell’eleganza del “lei”. Non un segno di distanza ma un “gentlement’sagreement”, salvo il fatto che in inglese “you” è uguale per tu e voi. Stando dall’altra parte, da paziente, cosa ho scoperto? Che abbiamo fatto battaglie ideologiche, lontane dal comune sentire, da una specificità comunicativa italiana, da un’empatia mediterranea che gioca le sue carte sull’immediatezza del contatto, sul mix di voce, gesti, sguardi, parole ed anche pronomi. La sveglia mattutina della signora delle pulizie era un sonoro e caldo “Buongiorno ragazzi (!) come va oggi?”, arrivava l’infermiera che a ciascuno chiedeva “Come hai passato la notte? Sei pronto per la terapia? Fai come ti dico” e così via. Mancanza di rispetto o non piuttosto offerta di una diretta, immediata e interessata volontà di partecipare al vissuto del paziente, per rendere più familiare la sua permanenza in una stanza d’ospedale? La giovane ausiliaria che mi ha accompagnato più volte in radiologia, di età minore a quella dei miei figli, si affacciava nella stanza chiamandomi Giorgino. Quando sono stato dimesso si è raccomandata che passassi a salutarla, prima di andare via, senza chiedere altro che un saluto ed un sorriso. Perché tutto ciò, da parte di donne e uomini mal pagati, senza altri incentivi che quelli di sapere di aver fatto bene il proprio lavoro e di non vederlo neanche sempre riconosciuto? Il sorriso donato, anche lo stesso “tu” che infrange le barriere della comunicazione e mette su un piano umanamente paritario il paziente e chi ne ha cura non sono optional ma fanno parte del percorso di cura perché possono stimolare energie positive e lenitive. La prossima volta, prima di imbarcarci in battaglie formaliste e più legate a canoni comunicativi “freddi”, restiamo con i piedi per terra, terra mediterranea come la dieta, di per sé “calda” e semplice, per godere del sapore di un “tu”, espressione di vicinanza e partecipazione.
Riflessione umana di alto livello da un medico che merita di essere rispettato per tutto ciò che ci ha insegnato in tutti gli anni che è stato con noi! Se me lo concedi anch’io voglio darti del TU e dirti, che un tu dato con un sorriso sincero aiuta molto di più a chi sta dall’altra parte. Buona guarigione e in gamba
Gentilissima, rileggendo queste parole torna il ricordo del nostro caro Giorgio. Si, ci ha insegnato un sacco di cose e per questo gli saremo sempre grati, come siamo grati a lei – anzi a Te – per questo affettuoso intervento. Cordiali saluti